Intervista - 1985-'86
Intervista di Marco Bonfanti a Marco Ippolito (Pratello, Brescia 1985-86).
Trascrizione di Francesca Veri, 2024.
Marco Bonfanti: Ho visto che sei andato in America non per fare qualcosa, anche se dopo hai fatto. Ho visto che hai fatto una mostra per sondare quello che c’era dietro la fama di New York dal punto di vista culturale. Che cosa puoi trarne? Che conseguenze?
Marco Ippolito: Che io tornerò sempre a New York perché è una città stupenda, è questo paradiso dove puoi aver tutto.
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Come puoi avere tutto?
Se vuoi avere la Cina avrai la Cina, se vuoi i portoricani, se vuoi la droga l’avrai, se vuoi piangere puoi piangere. C’è spazio per tutti, capito? E quindi invece di girare mezzo mondo vai lì, fai un biglietto andata e ritorno… Ma io non ci andrò! Il fatto è che quando io vado in un posto devo lavorare, per forza.
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Volevo chiederti una cosa, certe volte preferisci essere anonimo in una città, o essere partecipe della città stessa?
In che senso? Politicamente, culturalmente?”
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No no culturalmente, io sto parlando di cultura.
No… La cultura resta sempre legata a troppe… Guarda io starò bene finché sono così. Magari se diventassi famoso avrei i soldi, avrei il benessere, però dovrei sottostare a tante di quelle… Cioè, accettare molte cose “se no è così, se no è così”, che è meglio restare un po’ anonimi.
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E se tu dovessi diveltarlo? Come ti comporteresti?
Non saprei. Guarda che io ho due paure anche. Una è la povertà, morire povero. Povero di soldi ma anche di spirito e purtroppo è un po’ collegata la cosa. Ma un’altra è la ricchezza, perché ti porta ad essere talmente superficiale in tante cose.
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Hai più rivisto Carolina? Non sai dov’è?”
No. Mi ha detto che è stata in Inghilterra parecchio, è stata di qua e di là ma... Lei è una persona, io sono una persona… Lì non era amore, era rispetto. Quando stimo una persona, una donna, non c’è uno scambio fisico.
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Ti piacerebbe rivederla?
Non lo so. Tornare indietro, rivivere tutti i fantasmi del passato. Anche andare indietro tante volte… Se lei fosse come sono io adesso magari sì, ma non so magari è più giù.
Marco Bonfanti: Volevo chiederti un’altra cosa e questa è una cosa che non so se abbia influenza o ininfluenza. Adesso come adesso dove sei arrivato? Cosa hai ottenuto? Sei tranquillo con te stesso?
Marco Ippolito: Ma non lo sarò mai neanche quando gli altri mi diranno che sono arrivato, anzi, forse avrò più paura. No, mai! Ogni volta che arriverò spaccherò tutto per ricominciare da capo perché, quando ricominci da capo c’è il velo che distruggi ogni volta per ricreare.
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Da quello che ho capito tu regali solo un filo di te, dunque una certa parte ermetica. Chi lo capisce bene chi non lo capisce… Giusto?
Molte volte ho provato a spiegare alla gente e più spieghi e più vedi che non capiscono niente, più vanno in confusione. Invece se tu li lasci solo un filo, c’è chi sa cosa trarne e invece c’è chi se lo tiene in mano e non sa trarne niente. Quando ho fatto la mostra in questa galleria qua che c’erano le scale, il fatto che ci fossero le scale impediva a molta gente di salire. Perché, se sei sulla strada vengono lì tutti, bene o male, e con le scale dicono “Oh ma c’è da fare le scale!”. A uno interessa dell’arte e ti vien su. La gente fa la selezione. Quindi bisogna evitare chi ti fa veramente perdere tempo.
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Tu mi hai detto una cosa, che i lavori li fai finché puoi alle persone a cui tu interessi e che a te interessano. Dove sono adesso le tue opere?
Non le porto in giro. Però queste qua sono persone vere.
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Dimmi qualche nome.
Massolini, Segio Ermini… C’è gente che ci crede. Oppure ho questa mia parente che questo non vuol dire ma… Non sempre i parenti sono migliori amici. Lei ha studiato a Brera negli anni ’30 / ’40.
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Ah tua zia? La mamma di Paola?”
Lei ha pagato un sacco di soldi la mia mostra, ma non è che il pagare vuol dire… Magari dopo mezz’ora che li hai in mano li sputtani, li regali o li fai fuori. Poi c’è gente, che per me non sono nessuno proprio, che hanno però chiesto questo mio lavoro e io vedevo che lo sostenevano. Quando torno da queste persone so sempre che sono ben accetto, che starò bene con loro.
Marco Bonfanti: Io ti posso dire una cosa: può essere una paura inconscia dell’artista, ma quando devi esporre verbalmente le tue opere che non riesci a…?
Marco Ippolito: Tu metti te stesso davanti agli altri, capito? Quello fai. Non è tanto il vendere o non vendere, tu ti metti davanti agli altri. Tante volte ne approfittano di questo o pensano di potersene approfittare.
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Pensi di avere una certa immagine della gente? Di saper scegliere la gente?
Ti dico la verità, dopo questo viaggio, dopo questi ultimi mesi non me ne frega niente. Devo scegliere la gente perché, chiaro, io non posso stare con gente che non mi piace; quindi, c’è una selezione che è interna.
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Ti devo chiedere una cosa: Non lo so ma, secondo me, visto che non ti conosco bene non dici mai la verità in quello che tu esponi? Anche perché sai di essere sotto l’intervista.
Adesso ti dico la verità.
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In certi punti, secondo me, non sei proprio sincero. Ti piace dare un’immagine così di te stesso, come se fosse una copertura che ti fai verso un qualcosa, tipo al limite dell’imbarazzante. Un non voler aprire le tue debolezze, visto che tu sei un’artista e come artista in effetti l’unica cosa che conta è la tua arte e non le tue debolezze.
Ho alcuni amici che fanno arte e ognuno è diverso. Solo quelli sinceri, solo quelli che proprio arrivano verso il masochismo nell’offrire agli altri tutte le loro frustrazioni... Io penso che la sincerità serva, però non deve essere proprio palese, non deve essere palese la cosa. Uno ci deve arrivare. Ogni stadio, ogni livello di intelligenza delle persone… Uno arriva a capire l’altro un po’ di più, l’altro un po’ di meno. Non deve essere palese sennò perdi il gusto. Dei lavori, questi lavori americani, che ha colpo d’occhio dici: “Cazzo belli, interessanti.” Questi colori e queste cose qua, ma dopo che gli hai visti non hai più voglia di rivederli perché sai che è finito. Ci vuole un po’ di ermetismo e anche un po’ di falsità e poi ci vuole molta incoerenza nell’arte. L’uomo è incoerente."
Marco Bonfanti: Ti voglio fare una domanda un po’ specifica: l’arte deve educare o deve far scattare qualcosa che ti dice “perché questo è fatto così?
Marco Ippolito: L’arte non potrà mai educare nessuno, perché il più delle volte chi la fa è un maleducato, di solito. L’arte per me è prima di tutto un bisogno. Però sono cose soggettive.
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L’arte bene o male è esteriorizzare qualcosa, però tu materializzi qualcosa di tuo; dunque, sarà sempre un qualcosa che sarà capito da pochissime persone.
Ma guarda che la massa fa più paura che…
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No questo non è vero.
No ma lasciam perdere. Ma guarda che, se tu… Scusa… Se la massa dice “Sì mi piace Picasso” e su 300’000 chiedi sinceramente il perché, nessuno lo dice il perché.
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Ma, infatti, ti sto dicendo questo.
Nessuno lo dice perché pensa: “sembreremo degli ignoranti a dire…”.
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Ma, infatti, ti sto dicendo questo.
Io sono contento quando una persona compra dei miei lavori, perché so quello che io ho provato ad averlo fatto … Però ecco le persone che poi comprano dei miei lavori o li piacciono veramente o non li comprano.
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Come mai non mi hai mai venduto niente?
Perché non me l’hai mai chiesto.
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Non è vero.
Poi io vorrei anche gente che abbia spazio dove poterli mettere.
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Pensi che io sia un tipo a cui non piace la tua arte?
Non me lo sono mai chiesto.
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Non te lo sei mai chiesto?
Perché...
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Io all’inizio sono stato un po’ duro… Ma perché non capivo un cazzo.
Ma guarda che sono quelle le cose che ti… Vedi, la soluzione di un artista non sono i critici… Cioè, si lo sono a un livello temporaneo, è una cosa momentanea. Per me il più grosso critico è il tempo. Quindi io ho paura del tempo perché fra 10 anni o 20 anni si potrà dire “lui ha fatto quello, lui ha fatto così”, ma non è adesso che uno che mi viene a dire “questo, questo, questo,“. Io accetto molto di più le critiche da gente che non segue veramente l’arte, che però ha una certa sensibilità e allora la fa diventare mestiere. Perché di artisti che fanno arte come mestiere ce ne sono tantissimi. Però non fanno più arte, fanno arredamento. Ce ne sono tantissimi adesso che fanno arredamento. Si vede se l’arte è come arredamento e si sta facendo confusione di questa cosa, deve essere qualcosa che è personale, non deve né piacere o non piacere. Uno per vivere deve vendere. Se vende vive, se non vende vive male e lì è chiusa. Non è il problema del piacere o no. Poi adesso nella nostra università è più di vista il buon manager di te stesso, ancora più di allora.
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Tu non sei un buon manager di te stesso.
Potrei esserlo.
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Beh se volessi, però non lo vuoi.
Non è che non lo voglio, io non riesco. Io vorrei esserlo.
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Non riesci a.…
È quello che vorrei giuro.
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Però non riesci a.…
Non riesco. Io vorrei esserlo.
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Adesso però ti vengono le orecchie rosse, quando magari parli con uno.
No no. Quello lì è la pressione. Mai per timidezza, mai per quelle robe lì. Poi ovviamente se ci penso…”
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È timide...
Non è timidezza. Sai cos’è? È un punto debole, un tallone d’Achille. Tu scherzi ma guarda che le orecchie rosse sono una rottura di palle.
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Un sintomo, un sintomo di quello che stai provando.
Com’è adesso?
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No adesso sei…
Ottimo? Ottimale?
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No no, assolutamente ottimale.
Marco Bonfanti: Eppure la Guggenheim faceva proprio il discorso opposto. Lei metteva i quadri di autori che non si conoscevano, che erano sconosciuti.
Marco Ippolito: Ma vedi, lei ha avuto una mentalità europea con possibilità americane. Questo è il massimo. Lei ogni giorno preparava minimo 10 quadri. Ogni giorno. Tutti i giorni, tutti i giorni, tutti i giorni. Era lei che dava il valore facendo acquistare… Era lei che convinceva a comprarli.
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Pensi di essere arrivato come artista?
No.
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Cosa è che ti manca?
Cazzo ne so eh... Il successo non ti fa arrivare, non è…
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No a parte, a parte…
Beh allora mai cioè…
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No a parte quello che può essere il successo personale.
L’ultima ora in cui vivi puoi dire “Sono arrivato”. Perché è come fare una foto che non vedrai mai. Se tu dai dei valori di arrivo, cioè se si è arrivati allora…
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Potrai mai affinare la tua tecnica o meno?
Certo.
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Sempre l’affinerai?
Certo. Decisamente. Vorrei farla diventare più rosea… Che ci sia uno sviluppo continuo.
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Uno sviluppo continuo?
Se mi rendessi conto che non c’è un “andare avanti” non potrei mai ripetere.
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Molta gente… No, non molta gente. Alcuna gente che conosco trova la sua voglia di essere così perché dice “a me non mi interessa niente del tempo che sta passando, ma di sicuro sarò qualcosa per quello che verrà, perché io lascio qualcosa.” Tu ti identifichi in questa? Non è un discorso un po’ troppo egocentrico alla fine?
Sai io cosa lascerò? Bene o male che sia brutto o bello, so che qualcosa resterà. Non saranno magari soldi, appartamenti, che quelli li accettano tutti, però…
Marco Bonfanti: Dopo la tua esperienza berlinese hai vissuto un po’ qua e un po’ in giro. Molto qua e un po’ in giro. Come mai questo “stage” diciamo?
Marco Ippolito: Non sono “stage”, sono quei periodi che ti permettono di vedere bene, di vedere quello che hai fatto, quello che stai facendo. Cioè, io non potrei mai stare 3 anni in un luogo, 3 anni a Berlino, sennò diventerei uno come loro; quindi, non avrei più quel modo di vedere pulito… E non di partners anche. Un modo di vedere…
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Come mai sempre a New York. Non era già un po’ superata? Visto che tu segui dove c’è cultura.
Certo, per me adesso c’è Spagna e Vienna, Austria.
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In effetti tu mi hai sempre detto che andavi lì, non...
E io lì voglio vedere come cazzo… Cioè, da dove dicono tutti che arriva il punto massimo dell’arte, dove gira.
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Dove gira l’arte, i migliori critici, i migliori… Tutto…
No no non è il fatto che “i migliori”, è il fatto che giri, è lì.
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Beh, i migliori che si vendono insomma, perché infine anche dal punto di vista artistico tu devi saper vendere bene e New York è quella cosa lì.
New York, New York. Ci sono ancora posti in Europa dove puoi essere ancora te stesso e vendere… Anche lì, uno non può pensare troppo al vendere, perché non può pensare seriamente a quello che sta facendo. Perché deve seguire troppe tendenze, troppi modi di fare. Infatti, io mi sono reso conto che a New York ci sono molti più negozi di arredamento che… Lì stanno confondendo cosa vuol dire arte e arredamento. Se io avessi la possibilità di… se fossi ritenuto già qualcuno nell’arte, dato che si dicono robe del genere adesso, …Sarebbero da bruciare, da rasare al suolo, perché rovinano la reputazione, il comportamento, tutto il lavoro di anni di artisti. Loro sono negozi di arredamenti, loro vendono. A loro non frega niente di quello che fai o non fai, basta che si venda. E più ne fai, più…
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Meglio è.
Allora non è più… E difatti prima di partire avevo questa paura di avere una delusione, di avere…
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Ma tu, andando a New York, cos’è che ti prefiggevi?
Io ho vissuto molto con gli americani, moltissimo.
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Hai avuto molti rapporti, degli scambi interpersonali con gli americani…
Io volevo sapere veramente che cos’erano. Un conto è vederli qui e un conto è vederli io là e vedere cosa fanno, cosa non fanno. Poi veramente, a me di New York affascina moltissimo l’architettura. Io di New York ho apprezzato tantissimo la sua architettura, stupenda. Molto di più che quelle gallerie, con gli artisti che ci sono adesso.
La linearità…
No questo unire il moderno con il liberty del ’20 del ’30, mi sembra, bellissimo. Questi grattacieli di tutti vetri di fianco a costruzioni del 1920 e che si sposano benissimo. Cose che se ti guardi qui in giro noi non possiamo ancora fare: il moderno noi non possiamo ancora unirlo bene all’antico, mentre il loro non è un antico. Per loro è già antico il 1920.
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Hai qualche punto polemico da dire rispetto alla cultura americana di quello che tu hai visto (New York)?
Ma non posso essere polemico perché loro sono superficiali, a loro questo non interessa diversamente da noi, perché…
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Noi siamo superficiali?
Non ho tempo di poter scendere in profondità tra le cose. Quindi se tu arrivi a un tot allora basta. Per loro è sufficiente, per il mercato, per tutto.
Ma lo apprezzi o non lo apprezzi?
È la loro cultura, è la loro cultura. No, io preferirei vendere in Italia a molto meno ma vendere qui perché, quando il mio lavoro entra in un posto… Qua in Europa ha un certo valore, se mi entra là di danno 30'000 euro in più però so che… Sono superficiali, per loro il valore è pagarlo non chi lo prende, dove lo mette. Capito? Superficialità. Io lo accetto perché è il loro modo di vivere ed è giusto che sia così. Gli americani che lavorano così fan bene, perché chi fa arte deve essere cosciente e coerente del punto in cui si trova.
Marco Bonfanti: Cos’è che ti ha colpito di più di Berlino? Sii sincero in questa risposta, che io conosco Chiara.
Marco Ippolito: C’è la possibilità di avere tanto materiale nelle esposizioni, di avere… Di più è lo spazio: è la prima volta che ho così tanto spazio a disposizione dove poter lavorare. Era enorme, grandissimo.
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In un unico campo in diversi. C’era un campo che ti interessava o diversi campi?
Quello che più mi fa star male sono gli intervalli, gli intervalli delle giornate, quelli morti. Ecco qui per forza finisci a bere. Invece là non ci sono intervalli morti anche se adesso anche là sta cambiando… Ma non c’erano intervalli morti, okay? Uscivi in strada e avevi sensazioni a tremila, cioè, dovevi lavorare continuamente, andavi a cercare, vedere. Tornavi nel tuo studio e dipingevi, la sera andavi fuori e parlavi, vedevi la donna… Hai capito? Era sempre un lavoro completo, continuo, a tutte le ore del giorno. Come piace a me, a me non piace essere artista qualche ora nel mio studio e poi vado fuori, vado al bar, dimentico tutto oppure frequento gente… Cazzo… però ci deve essere una continuità completa.
A Berlino ha avuto importanza… Un qualcosa che si può chiamare “amore” per te?
Ho dato più importanza a questo.
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Hai dato più importanza a questo?
Ho cercato di coinvolgermi in questo amore… Sì… È stata una delle prime volte che ho amato una persona. Ma l’amore è troppo egoismo, se c’è troppo egoismo non puoi chiamarlo amore. Io amo le persone che mi stimolano, che siano cattive o buone, e se non le trovo le creo, ma le creo a tal punto che anche loro ci credono. Che la fine…
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Ma pensavi che quello… Che il rapporto che avevi tu fosse stimolante o fosse infatuazione?
Tutte e due. Perché l’amore deve essere stimolante, deve essere vivo sennò non esiste. Era amore perché c’era allegria, felicità, però c’era anche odio, c’era rabbia. Quello per me fa parte dell’amore.
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Ha cambiato qualcosa in te nelle esperienze successive? Non dico di amore, dico di arte, hai capito?
Sì sì. Ha dato un’impronta grossissima al mio lavoro perché io con questo amore, in un atto di rabbia, non mi volevo sfogare sulla persona, sennò l’avrei uccisa. L’ho fatto sulla tela, ci combatto ogni giorno, ma sia in gioia, sia in tristezza, in amore… Cioè, il mio lavoro è sulla tela, non di più e lì io sì certo, ho dato fuoco a più di una tela e ho avuto degli sbatti bellissimi di colori e da lì ho incominciato a lavorare bruciando i colori, capito?
Marco Bonfanti: Parlami del periodo Berlinese.
Marco Ippolito: Sì ma non tutto però. L’interruzione non la voglio.
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Ci sarà sempre un’interruzione.
Il periodo berlinese è stato molto bello perché sono partito in parte con dei soldi che mi avevano dato da alcuni lavori negli ultimi…
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A Firenze?
No, a Sirmione alla mostra.
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A Sirmione? Hai tenuto una mostra a Sirmione?
Dopo la scuola ho fatto questa mostra con alcuni lavori fatti in questi corsi e ho avuto una soddisfazione molto buona, c’era tantissima gente. E sia gente che era del campo, quindi conosceva le tecniche, ma era presente anche chi non conosceva le tecniche neppure e quindi io ero soddisfatto per affrontare una Berlino che veniva buia… Che mi dicevano che…
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Io sono venuto alla tua mostra.
A Brescia?
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No qua. Non so cos’hai pensato di me.
Non mi ricordo.
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In effetti è stato un rapporto abbastanza informale.
No ma sai cos’è, è il fatto che in questa mostra oltre che fare l’artista devi fare anche il gallerista. Devi star lì delle ore ad aspettare e questa è la parte più brutta. Cioè, tu devi star lì ad aspettare cosa succede…
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Ma a Berlino come mai sei andato?
Amici conosciuti, gente che studiava, questo gruppo di tre ragazzi su a Berlino…
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O tre ragazze?
Ragazzi. Di più aspetta, di più. C’era uno svizzero, un americano, un tedesco, un’altra svizzera e poi c’era tutto il gruppo di Berlino di questi artisti giovani che lavoravano e frequentavano questa nostra fabbrica. No bellissimo, molto molto bello. Poi Berlino in quegli anni era la Berlino degli anni 80, 81 dove son nate tante rivolte dei giovani, proprio disfavano tutto. Ma non è il fattore di distruzione che dovete pensare ma è il concetto di reazione. Adesso c’è un appiattimento e più si va avanti e più sarà piatto, e lì anche l’arte era viva.
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Dici che ci saranno meno stimoli?
Negli stimoli… Dipende che sono. Per far arte uno deve cercare veramente posti vivi, vivi nel vero senso della parola. Mentre New York è un arrivo, non è una partenza, non potrebbe essere una partenza, è un arrivo…
Marco Bonfanti: In data 30.04.1986 fatta a Pratello con Marco Viola. Marco, spiega a parole tue quello che hai fatto, dove hai studiato, le tue esperienze nel campo dell’arte.
Marco Ippolito: Sono arrivato a 19 anni con molta voglia di esprimere, di lavorare, di mettere in materia tutto quello che pensavo. Però sono arrivato anche ad un punto che la mia tecnica non mi bastava più e dovevo imparare nuove tecniche e l’unico modo per far presto era studiare, lavorare con gente, conoscere. Così ho cercato una scuola che mi potesse dare un vero insegnamento, però non… Ormai a 19 anni uno lo sa se vuole veramente arrivare a qualcosa di vero o no; quindi, anche questa scelta della scuola è stato… Molto, molto cosciente la cosa. Quindi la scelta della scuola…
​
Non è stata campata in aria?
No no. Quindi ho cercato una scuola che mi occupasse a testa piena 24 ore al giorno.
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Non a scuola?
Si, di una scuola.
​
Sì ma dico non a scuola fino alle quattro.
Non una scuola tradizionale, non la tipica scuola d’arte italiana dove si perde molto più tempo a parlare di politica invece che trattare… Cioè il problema è che uno non deve far altro che lavorare, i discorsi li lasciamo fare a chi… E questa scuola l’ho trovata a Firenze.
​
Come si chiamava?
Studio Arts College International. Una scuola d’arte internazionale. E qui in questa scuola ho trovato moltissima gente con gli stessi interessi, cioè con la voglia di… Di creare. A tempo pieno, non sei ore di lezione poi via. Erano proprio ventiquattro ore. Un lavoro molto intenso è stato.
​
Una cosa che hai continuato fuori dalle ore di lezione.
Sì sì. Molto. E io lì ho incominciato a…
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Allora hai dovuto trasferirti a Firenze?
Sì.
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Questo ha comportato qualcosa?
Beh è stato… Poi Firenze è sempre Firenze, è una città che da’ moltissimo, anche se è molto turistica. Troppo… Troppo interesse. Ti tolgono anche l’ossigeno. Comunque, in una città così si può trovare gente di tutti i tipi, gente molto valida o gente che non ha mai fatto niente.
​
Che materie studiavi?
Io ho scelto fotografia e disegno dal vero e pittura.
​
E pittura?
Sì. Non ero capace di un sicuro inserimento in questa scuola.
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Come mai?
Perché ero abituato a lavorare da solo, no?
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Non sei un tipo molto socievole?
No io sono un tipo socievole, però un conto è essere bravi a lavorare da soli, vivere da soli, quindi anche con una certa timidezza verso…
​
Nell’esporre la propria arte?
Ma più che altro che esporre è durante la creazione, la fase di preparazione che è una fase che può essere anche lunga, che può cambiarti totalmente, e quindi ti mostri in tanti modi diversi. Io capisco avere magari anche un po’ di solitudine, mentre lì nello studio era proprio come una vecchia bottega e là il maestro mi insegnava.
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Una cosa su modello rinascimentale?
Sì, proprio, c’è molta semplicità nel fatto di… Del rapporto con l’insegnante. Gente comunque molto preparata e quindi a cui si dava molto rispetto. Io ho conosciuto ragazzi che venivano da tutte le parti del mondo, da Hong Kong, dalla Svezia, americani, spagnoli, portoghesi, indiani, sudafricani… E quindi era tutto un insieme di arte. Quindi con un biglietto solo in quell’anno era come se avessi viaggiato per la maggior parte del mondo e questo mi è servito moltissimo. Mi è servito ad essere più aperto, ad avere anche contrasti all’inizio. Però ci sono quelli che portano proprio a qualcosa di concreto.
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Ma l’inserimento in questa scuola mi dicevi appunto che era difficile, ma anche il rapporto con le persone con cui lavoravi?
Tu devi sapere che in una scuola d’arte non è la tipica scuola, cioè l’insegnate diventa anche psicologo, diventa… Perché non è detto che un bravo pittore possa dipingere bene in qualsiasi posto. Può avere una vera tecnica, ma se non trova l’ambiente giusto quello che fa è veramente molto superficiale. Quindi non è facile avere un inizio da cui partire e quando si è in venti che si lavora assieme, per dire… Caratteri diversi, personaggi diversi… Diventa difficile. Non è come studiare matematica che ti metti lì ed è così per tutti: o lo sai o non lo sai. Ognuno nell’arte si esprime come vuole.